Il
cammino della ricerca scientifica in ambito alle malattie degenerative
neurologiche è lento ma progressivo, lo dimostra l’attenzione dei ricercatori
nei confronti di quelle patologie cerebrali, come di fatto sono le demenze
senili, primo fra tutti il Morbo di Alzheimer, oggi che siamo in grado non solo
di stabilire l’esatta causa di queste gravissime malattie ma anche di
incamminarci verso un futuro quanto mai prossimo il cui traguardo sarà dato
dalla cura definitiva di tutte quelle patologie che determinano un progressivo
e irreversibile danneggiamento delle cellule cerebrali.
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Per far
ciò bisogna che sia chiara alla scienza l’esatta origine di quei “disastri” che
avvengono nel cervello del malato e soprattutto si conoscano al meglio le cause
che determinano tutto ciò. Un ulteriore tassello in tal senso è stato aggiunto
da un importante studio scientifico portato avanti grazie alla ricerca Telethon
e da ricercatori del Tigem, il tutto pubblicato sulla rivista Science. Secondo
il più recente convincimento degli studiosi, sia l’Alzheimer che il Parkinson,
entrambe patologie causate da un marcato danneggiamento delle cellule
cerebrali, sarebbero di fatto provocate da quelle sostanze accumulatesi nei
pressi delle cellule cerebrali capaci di danneggiarle. Le armi a disposizione
dall’attuale medicina ufficiale sono inefficaci perché si limitano a ritardare
i processi di decadimento delle funzioni del paziente agendo soltanto come una
sorta di scudo delle stesse cellule, ma chi abbia a che fare con un malato di
Alzheimer ben sa come sia penoso assistere il proprio congiunto, soprattutto nelle
ultime fasi della malattia, stante le inefficaci cure attualmente disponibili.
Tuttavia
oggi, quella che si credeva soltanto una speranza lontana nel tempo, potrebbe
concretizzarsi in periodo relativamente breve, proprio grazie all’impegno che
gli studiosi hanno profuso nella ricerca medica. Ad esempio, lo studio Telethon
sarebbe giunto al punto da poter asserire che allontanando le sostanze che nell’
epoca determinano il danneggiamento cerebrale alla base della malattia si
potrebbe giungere alla cura pratica di tutte quelle patologie degenerative di
cui l’Alzheimer ed il Parkinson sono i capostipiti. Il modello sperimentale
adottato negli animali ha dato buoni risultati e incoraggia i ricercatori al
punto da poter immaginare una prossima sperimentazione anche in umana e,
soprattutto, si cominciano ad ipotizzare gli impieghi pratici di tali inedite
cure che potrebbero essere praticate, in un lasso di tempo che nella migliore
delle ipotesi potrebbe essere di un paio d’anni, nella peggiore, di un
decennio.
Un’altra scoperta avvicina le cure contro il Morbo
di Alzheimer
Ben sappiamo che la ricerca di un qualsiasi presidio che ci affranchi da
temibili patologie come il Morbo di Alzheimer e il Morbo di Parkinson, è
affidata al lavoro, spesso congiunto di importanti Istituti di ricerca sparsi
in tutto il mondo, non stupisce dunque che a volte, in concomitanza con un
primo traguardo realizzato in un’area geografica del pianeta, se ne aggiunga un
altro venuto alla luce dall’altro capo del mondo. La
dimostrazione pratica di quanto sta avvenendo in questo campo ce la da un
recente lavoro scientifico che è stato pubblicato sulla rivista scientifica
Nature Chemical Biology cui hanno partecipato ricercatori del Dipartimento di
Scienze biochimiche dell’Università di Firenze, guidato da Fabrizio Chiti e con
la partecipazione di Silvia Campioni e del
Dipartimento di Scienze biochimiche dell’ateneo fiorentino, oltre ad
Annalisa Relini del Dipartimento di Fisica dell’Università di Genova. La
ricerca riguardava l’osservazione del ruolo assunto da certe proteine incapaci
di restare solubili con la conseguenza di assistere a veri e propri accumuli di
sostanze definite fibrille amiloidi che quando si accumulano a livello
cerebrale determinano malattie come quelle citate, compresa la temibile
amiloidosi.
Tali
accumuli, oltretutto, prima di divenire aggregati fibrillari maturi passano da
uno stadio intermedio con la formazione di sostanze dette oligomeri e proprio
queste sarebbero i veri responsabili di queste patologie, con l’aggravante che
tali formazioni intermedie sono difficili da localizzare e identificare prima
che arrechino danni alle strutture nervose. Il lavoro scientifico congiunto è
tutto orientato verso lo studio degli oligomeri, volto anche a stabilire non
solo il modo in cui sarà possibile intervenire, ma il grado di tossicità che
essi sono capaci di determinare a carico delle strutture danneggiate e, non
ultimo, i fattori che intervengono affinché questi aggregati intermedi
sviluppino una tanto elevata tossicità.
«Studiare
a livello molecolare gli oligomeri - ha commentato Chiti - apre importanti orizzonti
sul meccanismo che sta all’origine di queste malattie e
permette di identificare nuovi bersagli per l’intervento terapeutico. Sulla
strada aperta dalla nostra ricerca di base si può sviluppare la ricerca
farmacologica. Per dirla con un’immagine, stiamo preparando il terreno dove
costruire l’edificio della prevenzione e della cura».
Una nuova ipotesi genetica individua la maggiore
incidenza dell’Alzheimer nella donna
Mentre si
tenta di fare luce sulle cause che originano patologie neurodegenerative come
l’Alzheimer, un recente lavoro scientifico individua anche un fattore genetico
che spiega il motivo secondo il quale sono le donne ad ammalarsi maggiormente
della malattia rispetto all’uomo. Tale
lavoro scientifico è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics da Steven
Younkin, ricercatore presso il Mayo Clinic College of Medicine (Jacksonville,
Florida - Usa), secondo il quale nel cromosoma X potrebbe essere presente una
mutazione genetica associata al Morbo di Alzheimer. Tale mutazione interverrebbe
su una proteina che si danneggerebbe al punto da non dare più la possibilità
alle cellule nervose di interconnettersi fra di loro.
Il lavoro
scientifico statunitense assume un’importanza rilevante nel novero di tutti gli
studi compiuti sulla malattia di Alzheimer perché fa piena luce sul ruolo che
la genetica assume nei riguardi della malattia, al punto che viene a cadere un
baluardo delle attuali conoscenze scientifiche che annetteva importanza, ai
fini della maggiore esposizione della donna al Morbo di Alzheimer, alla durata
media maggiore della vita della donna rispetto all’uomo, col risultato che il “sesso debole “ si ammalerebbe
maggiormente per il fatto che, come si sa, la donna detiene due cromosomi X
invece che uno come avviene nell’uomo e, dunque, ogni variazione genetica che
riguardi entrambi i cromosomi X della donna espone la donna al rischio ci
incorrere nella malattia in maniera doppia rispetto all’uomo se tale variazione
riguarda entrambi i cromosomi della donna.
Quando
invece la variazione genetica riguarda un solo cromosoma X della donna, la
stessa corre lo stesso rischio di incorrere nell’Alzheimer rispetto a quanto ne
corra l’uomo. E’ la prima volta che si approfondisce con questa attenzione l’ipotesi
genetica della malattia, senza trascurare l’altro fattore importante
rappresentato dall’età del paziente, una variante questa cui i ricercatori
continuano a prestare sempre grande attenzione. Vedremo
in una prossima trattazione i primi traguardi terapeutici che gli scienziati
stanno preparando per il prossimo futuro.
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