Saremo
la nazione dove si vive più a lungo nel mondo, dopo il Giappone, ma se
guardiamo all’Europa, l’Italia è interessata da un problema medico molto
rilevante, la constatazione di come in Italia risieda un numero di anziani affetti
da forme di depressione senza pari nel resto del Continente. Dagli ultimi studi
rilevati si stima che nel nostro Paese 52 donne di età superiore a 65 anni e 31
uomini nella stessa fascia d’età accusano i segni della malattia.
Lo
ha stabilito uno studio italiano longitudinale sull’invecchiamento, condotto
qualche anno addietro da Stefania Maggi, ricercatrice dell’Istituto di
neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche (In-Cnr) di Padova,
insieme ad un’indagine dell’Ilsa (Italian Longitudinal Study on Aging), che ha
preso in esame 5.600 soggetti, tra i 65 e gli 84 anni. Il dato assume rilevanza
elevata anche in funzione di un’altra importante acquisizione scientifica che
ci mostra bene come sia importante la correlazione esistente fra la depressione
ed il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari.“E’ stato infatti
provato”, spiega Stefania Maggi, “che in soggetti colpiti da infarto al miocardio
la concomitante o conseguente presenza di sintomi depressivi aumenta il rischio
di progressione della malattia e di mortalità rispetto a chi, con lo stesso
quadro clinico, non soffre di depressione. Soffrire di depressione
diagnosticata o presentare sintomi depressivi pur essendo sani espone
maggiormente a rischio di malattie coronariche”. Il risultato pone in evidenza
anche un altro dato significativo che dimostra come la depressione nell’anziano
con i suoi sintomi più impegnativi aumenti notevolmente la mortalità del
paziente interessato dal problema.
Si
tratta a questo punto di capire come sia possibile correlare due malattie tanto
diverse come la depressione e l’infarto. Le ipotesi fino adesso fatte dai
ricercatori riconducono a fattori eterogenei le cause alla base delle due
patologie, si ipotizzano fattori biologici, comportamentali e socio-ambientali
quelli coinvolti nell’origine delle malattie. Gli studi clinici e sperimentali
sembrano far prevalere l’aspetto biologico: alterazioni dell’asse
ipotalamo-ipofisi-surrene, che è il rischio biologico maggiore riscontrato
nella depressione. Ma vi sarebbe anche l’aggregazione piastrinica, imputata nei
danni vascolari e un’alterata regolazione neurovegetativa del ritmo cardiaco
ipotizzerebbero, sia in termini eziologici che prognostici, le ragioni della
plausibilità biologica del rapporto tra stati depressivi e eventi
cardiovascolari, a detta dei ricercatori.
Lo
studio dunque si offre come utile strumento di prevenzione per medici di base e
specialisti delle varie branche che abbiano in cura soggetti anziani con
sintomatologia depressiva con aumentato rischio di declino funzionale fisico,
di eventi cardiovascolari e di mortalità che possono essere ad essa associati.
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