martedì 4 dicembre 2012

Fibrillazione atriale: quali cause la determinano, le nuove inedite terapie

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Quando parliamo di fibrillazione atriale, il pensiero va immediatamente al ritmo cardiaco ed in effetti, di un’anomalia del ritmo si tratta, in grado di determinare una frequenza cardiaca alterata del cuore con un battito del tutto irregolare. Possiamo dire dunque che l’espressione, fibrillazione atriale stia ad indicare una malattia? In effetti non si è di fronte ad una vera e propria malattia, semmai ad un sintomo che semmai è espressione di uno stato patologico a carico per lo più del cuore. Semplificando al massimo la spiegazione volta a chiarire le cause della fibrillazione atriale, occorre ricordare che in un cuore sano assistiamo all’impulso primario che determina la frequenza ed il ritmo cardiaco che proviene da un’area cardiaca definita nodo senoatriale, tant’è che in questo caso parliamo di ritmo sinusale. Quando invece l’impulso giunge da altra zona cardiaca in punti non ben determinati lungo l’intera muscolatura cardiaca, assistiamo al fenomeno patologico, con la conseguenza che il cuore continua a battere ma lo fa in modo irregolare e qualitativamente meno efficace, visto che un cuore che fibrilli attua il riempimento e lo svuotamento della pompa cardiaca in misura ridotta anche del 30% rispetto ad un cuore sano.
Se, dunque, parliamo di fibrillazione atriale, ci riferiamo ad un’aritmia, per nulla poco diffusa, soprattutto nella popolazione anziana e che determina la difficoltà del sangue a trasferirsi negli atrii e la
stessa difficoltà si riscontra quando lo stesso sangue deve essere successivamente spinto a livello dei ventricoli con immancabile rallentamento del flusso. Stando così le cose, questa sorta di stagnazione, sia pure momentanea del sangue, causa pericolosi coaguli, di piccolo spessore ma che vengono a loro volta spinti nel circolo ematico con la conseguenza di poter essere trasportati nell’aorta fino all’arteria polmonare. In questa sede, se il coagulo è di spessore maggiore, occlude il passaggio del sangue, sia pure per breve tempo, dando luogo ad embolie fino ad eventuali ictus, a volte persino mortali. L’embolia è la conseguenza estrema di una fibrillazione atriale, con una frequenza del fenomeno pari al 20% circa di tutte le aritmie di questo tipo e con le conseguenze appena citate, ricordando però, che la gravità dell’eventuale rischio è subordinata alla grandezza del coagulo, più grande è la dimensione di questa formazione, maggiori sono i rischi cui si espone il paziente, tenendo conto che un coagulo che, eccezionalmente raggiunga lo stesso calibro del lume dell’arteria, lascia pochissime o nulle possibilità di recupero del paziente in caso di embolia.

Fibrillazione atriale causata da patologie dell’apparato digerente

Spetta, ovviamente, al cardiologo stabilire l’esatta natura della fibrillazione atriale, infatti lo specialista sarà in grado di discernere le due forme dell’affezione, quelle saltuarie parossistiche e quelle continuative. Le prime sono spesso espressione di una patologia gastrica, prima fra tutte l’ernia iatale. Tali forme incidono nel novero dell’intera casistica riconducibile alla fibrillazione atriale in una misura che non supera il 20% dei casi, considerando anche in queste forme altre cause di pertinenza cardiologia, il restante 80 per cento è ascrivibile a cardiopatie.

Come si cura la fibrillazione atriale

La terapia della fibrillazione atriale è per lo più farmacologica, utilizzando farmaci della famiglia degli antiaritmici che agiscono riportando il ritmo cardiaco alla normalità. Una cura che trova anche impiego in questa aritmia è quella basata sullo shock attuato mediante defibrillatore. Tuttavia, sia la terapia farmacologica, che la metodica clinica appena citata, non  sempre ottiene i risultati auspicati, soprattutto laddove il fenomeno patologico abbia fatto l’ingresso nella vita del paziente da più di un anno. Occorre anche dire che ne trattamento di tale fibrillazione il ricorso a farmaci anticoagulanti energici, quali ad esempio i derivati del dicumarolo, si rende necessaria anche per disciogliere quei  coaguli che rischiano di entrare nel circolo ematico. Anche quest’ultimo trattamento non è tuttavia scevro da eventuali rischi per via del fatto che allungando i tempi di coagulazione del sangue, può a sua volta rappresentare un pericolo aggiunto per quei soggetti, ad esempio, ipertesi che potrebbero andare incontro ad emorragie cerebrali, al punto che, nella valutazione dei rischi, non si nasconde che l’utilizzo degli antiaggreganti del tipo appena citato, rappresenta un pericolo doppio per il paziente rispetto alle conseguenze estreme della fibrillazione atriale.

Terapia chirurgica da uno studio americano
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Densa di aspettative è invece la scoperta derivante da uno studio del Cardiovascular Institute, Loyola University Medical Center nell’Illinois e pubblicato su Jama, condotto da due esponenti dell’ateneo americano, i professori David J Wilber e collaboratori i quali hanno da poco portato a termine i propri lavori scientifici concludendo che la terapia farmacologica nei casi impegnativi di fibrillazione atriale è ormai sicuramente superata dalla terapia chirurgica, nello specifico dall’ablazione chirurgica trans-catetere, l’unica pratica in grado, a detta di questi scienziati, di guarire dall’affezione. Parliamo di pazienti affetti dalla forma parossistica, quelle forme che si possono, come visto, anche ricondurre a patologie dell’apparato digerente. A giudizio dei ricercatori americani che hanno condotto lo studio in 19 ospedali e 166 pazienti che erano andati incontro ad almeno tre crisi si aritmia importanti nei sei mesi prima che venissero attenzionati dagli studiosi e che facevano uso di farmaci antiaritmici e anticoagulanti, senza per altro trarre beneficio, si è visto che solo il ricorso all’ablazione chirurgica trans-catetere, sortiva i risultati sperati.

Di che si parla

L’ablazione chirurgica trans-catetere è una tecnica relativamente recente, visto che solo in Italia è attuata da almeno venti anni, semmai è del tutto innovativo il sistema applicato nella fibrillazione atriale. Ci riferiamo ad una tecnica applicata in regime di day Hospital con un ricovero che richiede una degenza non superiore ad un giorno. La tecnica consiste nel far transitare un catetere all'interno di una vena oppure di un'arteria, preferibile quella femorale in quanto di grosso calibro. I cateteri che vengono seguiti attraverso controllo radiologico, vengono sospinti fino alle cavità cardiache dove mediante l’utilizzo dell’elettrocardiografo si registra l’attività elettrica del cuore registrando l’aritmia indotta dalla manovra; a questo punto si riesce ad identificare il punto esatto da cui si diparte lo stimolo che determina l’aritmia e questo viene scaldato mediante una corrente chiamata di radiofrequenza a circa 65 gradi C che determina la coagulazione del punto del focolaio responsabile dell’aritmia e la sua soppressione.

Il ricorso alla crioablazione

Come indica la stessa parola, sempre più spesso si va facendo strada anche la crioablazione, che sfruttando la stessa tecnica chirurgica dell’ablazione, al posto del caldo, sfrutta il freddo mediante il ricorso di un catetere al cui interno è posto un elettrodo collegato ad un liquido refrigerante (NO2) sotto pressione. Al raggiungimento di 20 gradi sotto lo zero, sulla superficie del catetere si forma uno strato di ghiaccio che al contatto con il tessuto del cuore lo ripara, al solito, nel focolaio da dove parte l’impulso che da origine alla fibrillazione atriale.

Si può a questo punto dire che quei pazienti affetti da fibrillazione atriale sottoposti a tali trattamenti chirurgici sono guariti nel 100 per cento dei casi, mentre quei pazienti che erano ricorsi al trattamento farmacologico hanno ottenuto risultati definitivi, ricordando che il periodo di osservazione è stato di nove mesi in tutte e due i casi, in appena il 16%. Per quanto concerne gli effetti collaterali, ricordiamo che nel caso di quei pazienti che usavano i farmaci, si sono palesati nove volte su cento nei pazienti in trattamento farmacologico, mentre quelli che sono ricorsi all’ablazione chirurgica con le metodiche appena viste, hanno avuto efetti avversi in meno del 5% dei casi. Per non contare infine, il miglioramento della qualità della vita dei pazienti che si sono sottoposti alla tecnica operatoria, visto che in tutti i pazienti “chirurgici”, tale miglioramento è stato significativo, almeno per tutto il periodo di osservazione preso a riferimento.


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