Ma i soldi fanno la felicità? Questa frase si
presta a numerose obiezioni da parte di tanti, anche perché,
solitamente, chi lo afferma, avrà altri problemi, ma forse non ha
quelli di natura economica. Così come è altrettanto vero che la
mancanza di soldi, in una famiglia ad esempio, causa moltissime contrarietà che si infrangono come onde sugli scogli sicuramente anche sulla salute, vuoi per
le tensioni che si creano, vuoi per il fatto che, in caso di
malattia, non è possibile, curarsi al meglio. Ma scopo di
quest’affermazione è un’altra.
Che l’argomento sia dibattuto è cosa ovvia, che si sono scomodati
persino scienziati per ribadire il concetto che non mette il denaro
al primo posto della felicità, significa che il problema è
reale. Certo si dirà, andate a dire ad un pensionato al minimo della
sua pensione che le felicità sono altre. Altro che ansia e stress vive chi è senza soldi del tutto o quasi. Ma, senza arrivare ai casi
limiti, oggetto dello studio era stabilire cosa veramente garantisca
il benessere psicofisico di un individuo, al di là del rapporto
intimo che ognuno di noi ha col denaro. Secondo Antonio
Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la ricerca e
l’innovazione biomedica del Cnr che ha condotto uno studio in tal
senso, checchè
se ne dica, oggi il raggiungimento di quel benessere che potrebbe
anche tradursi in felicità, concetto peraltro molto evanescente,
visto che la felicità è molto soggettiva per ognuno di noi, non è
di certo il denaro, anche
se è credenza diffusa che sia il denaro in primis, in grado di
generarla. Una ricerca volta a detronizzare il denaro in cima alle
felicità dell’individuo, è quella condotta dal
premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e pubblicata nel 2010
sulla rivista Pnas:
ne è emerso che
“benessere emotivo”, altrimenti detto felicità
vissuta, e “valutazione della vita”, intesa come
interpretazione cognitiva della propria intera esistenza, migliorano
effettivamente con lo stipendio. Ma la proporzione si interrompe
quando si raggiungono i 75.000 dollari l’anno".
Quindi,
secondo tale ricerca, superata una certa soglia di benessere, in
questo caso i 75.000 dollari all’anno, qualora abbiamo la certezza
che tale benessere possa essere mantenuto a lungo, astrattamente per
tutta la vita, ci si accorge che, a meno di essere avidi e
incontentabili, puntiamo ad altre felicità che ci inducano a
scoprire quel benessere emotivo tanto agognato, non foss’altro perché siamo riusciti a
raggiungere quell’equilibrio economico che ci induce per lo meno
una certa tranquillità.
Ma
siamo sicuri che, almeno su questo, la scienza sia d’accordo?
A
quanto pare no, perché va in contraddizione con un recentissimo
studio scientifico del 2021 effettuato dal ricercatore americano
Matthew
A. Killingsworth che ha pubblicato le conclusioni del proprio lavoro sempre sulla rivista Pnas. Ma cosa sostiene quest’altro
ricercatore?
“Il ricercatore dell’Università della Virginia, a
differenza di Kahneman, non ha utilizzato test psicologici in cui si
chiede ai soggetti di ricordare il loro passato, ma dati in real-time
sul benessere percepito, acquisiti via smartphone, scoprendo che dopo
tale soglia di reddito aumenta in maniera ancora più netta la
sensazione di benessere, la percezione della soddisfazione per la
propria vita si stabilizza”, spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato
dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica (Irib) del
Cnr.
“benessere emotivo”, altrimenti detto felicità vissuta, e “valutazione della vita”, intesa come interpretazione cognitiva della propria intera esistenza, migliorano effettivamente con lo stipendio. Ma la proporzione si interrompe quando si raggiungono i 75.000 dollari l’anno".
Pare quindi di capire, che se è vero che il denaro nell’immaginario collettivo spesso è stato scambiato per il raggiungimento della felicità, vero è anche che l’approccio con il benessere economico ha subito cambiamenti nel corso delle generazioni. Mentre nel passato il denaro era associato al sacrificio individuale di raggiungere, tramite i soldi, quel grado di tranquillità che poteva tramutarsi o per lo meno far tendere alla felicità, oggi il valore che si da al denaro non è per forza associato al sacrificio e alle rinunce patite prima di raggiungere il benessere economico, ma viene sostituito con il concetto della rapidità con cui siamo riusciti ad arrivare a un certo livello. Questo si lega all’attuazione di strategie non legate alla perseveranza, ma concentrate sull’immediato beneficio.
In sostanza, una maggiore disponibilità economica permette di provare più frequentemente piacere e di soddisfare i bisogni primari, ma non incide sulla percezione di chi siamo e di quello che abbiamo realizzato, che non è correlata al denaro:
“Tra gli elementi da considerare, c’è la valutazione dei sacrifici, delle azioni messe in campo e delle rinunce fatte per arrivare ad avere una maggiore stabilità economica”, evidenzia il ricercatore del Cnr-Irib. “Nel passato, l’archetipo sociale del sacrificio era uno degli indicatori di maggiore soddisfazione esistenziale, oggi invece questo valore sociale viene spesso sostituito con il concetto della rapidità con cui siamo riusciti ad arrivare a un certo livello. Questo si lega all’attuazione di strategie non legate alla perseveranza, ma concentrate sull’immediato beneficio”.
Insomma, una sorta di cambiamento di costumi che hanno pure trasformato il nostro rapporto col benessere economico personale indotto dal denaro posseduto. E non solo. Un tempo si poteva essere ricchi pur non avendo costruito nulla personalmente, magari si era ricchi per lasciti o per aver goduto di eredità. Oggi la ricchezza economica si associa al proprio ruolo sociale ricoperto. Se ho un incarico prestigioso non posso non guadagnare tantissimo, cosa che ci gratifica non soltanto perché possiamo permetterci cose che altri che non ricoprono la stessa posizione come noi, non possono, ma anche perché, come ci ricorda lo stesso Cerasa,
“Neurobiologicamente parlando, la gratificazione psicologica deriva dalla soddisfazione di bisogni secondari quali autostima, autorealizzazione, autodeterminazione; ma esiste un altro bisogno secondario che spesso viene dimenticato e rappresenta invece il più potente induttore di felicità a livello biologico: la socializzazione. Maggiore è il nucleo sociale che mi sostiene, maggiore è la mia gratificazione psicologica”, conclude Cerasa. “Per chi crede fermamente che la felicità sia data dalla sola disponibilità economica e che questa si possa facilmente raggiungere con posizioni sociali e di carriera elevate, c’è una domanda a cui è difficile rispondere: perché affannarsi cosi tanto? Da cosa dipende la profonda spinta motivazionale che ci porta a raggiungere sempre nuovi traguardi? La risposta è scritta proprio nel bisogno di essere notati, dell’attenzione degli altri, di ricevere complimenti, in poche parole il ‘social reward’ è il più grande motivatore delle decisioni e strategie dell’essere umano. E questo non ha niente a che vedere con il denaro”.
Fonte: Antonio Cerasa, Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica
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