Perché,
ancora oggi, nonostante l’ampiezza del fenomeno che si consuma tutti i giorni,
coinvolgendo vittime di entrambi i sessi, giovani e meno giovani, che in un
battito d’ali passano dalla vita alla morte senza quasi accorgersene, la morte improvvisa da arresto cardiaco
deve ascriversi ad una rarissima
evenienza? Ci si fa questa domanda partendo da un presupposto
importante, ovvero, possiamo definire raro un evento che in sette anni fa più
vittime dell’ultimo
conflitto mondiale in Italia che si tradusse in perdite di vite
umane pari a 443 mila persone in cinque anni? Sicuramente no, ma quel che
stupisce di più è l’evidenza di come la realtà riportata dai mezzi di informazione
in generale, persino dagli stessi medici,
sia più grave del fenomeno stesso, quando, addirittura si titola la morte di un
giovane che si accascia al suolo privo di vita, come “rarissima evenienza”.
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Ma
si può ancora definire rarissima evenienza, quella contingenza che uccide ogni
anno nella sola Italia ben 60.000 persone? Insomma, nel silenzio delle
informazioni in materia che non riceviamo, in Italia ogni anno, una persona su
mille abitanti muore per questa “rarissima evenienza”, una delle principali
cause di morte e non solo non occupa, al di là del singolo fatto di cronaca, le
prime pagine dei giornali, ma si continua a considerarla ancora, una “rarissima
evenienza”. Allora, se così stanno le cose, perché non parlare di rarissime
evenienze come quelle causate dai morti per incidenti stradali che da sempre
consideriamo tutt’altro che rare, al punto che sono scesi in campo giuristi ed
esperti della materia per stilare nuove norme più drastiche al fine di arginare
il fenomeno, che ha richiesto l’impegno delle Case automobilistiche per sfruttare
tutto il nostro sapere ed impiegarlo in ambito alla sicurezza stradale.
Eppure, i sinistri della strada causano “appena” 5.000 vittime ogni anno, meno
del 10% delle morti dell’altra “rarissima evenienza” rappresentata dalla morte
improvvisa per arresto
cardiaco. E che dire delle morti da cancro al polmone.
S’è bersagliato il fumo di sigaretta additandolo come responsabile delle tante
morti da neoplasia
correlate e accidenti vari, si sono fatte Leggi antifumo, eppure in Italia si
muore, per i danni indiretti del fumo di sigaretta, in una misura che non è
superiore ai 30.000 decessi all’anno, ovvero la metà di tutti i decessi della
“rarissima evenienza” cardiaca. Certo, il quadro che si palesa di fronte alle
vittime delle neoplasie è vissuto con quell’alone di dramma che corolla lo
stato sofferente dei
malati terminali in quel lasso temporale variabile da malattia
a malattia e da soggetto a soggetto, fino al fine vita e forse questo
impressiona di più l’immaginario collettivo. Ma i tanto temuti tumori, per
quante vittime facciano, sono bel lontani dal determinare gli stessi decessi di
quella maledetta
aritmia fatale che strappa alla vita anche tanti giovanissimi
in apparente stato di ottima salute. Tant’è che il tanto temuto tumore allo stomaco,
pure essendo ritenuto una delle più gravi neoplasie, uccide 10.000 pazienti
all’anno, un sesto di quanto arrechi la “rarissima evenienza” cardiaca, così
come i decessi seguiti da AIDS
non superano i 4.000 decessi all’anno, mentre 1.300 o poco
meno, sono le vittime da incidenti sul lavoro, seimila quelli che decedono per aneurisma addominale
e 500 le morti per droga.
Facciamo quattro rapidi conti e scopriamo che tutte queste cause esaminate
sommate insieme fanno meno morti della “rarissima evenienza” cardiaca, che era
ad un passo dallo stroncare la stessa vita di Caterina Socci, ritratta in foto.
Investigare
sulle cause del fenomeno è arduo, dovendosi basare sulle presunte cause genetiche e su
altri fattori sconosciuti che sono al vaglio della scienza che, probabilmente
un domani, ci fornirà le risposte che tutti ci attendiamo. Resta però il fatto
che ad oggi, nella totale oscurità di quelle leggi naturali che governano
l’intero apparato
cardiovascolare, almeno per quanto concerne questa importante
causa di morte, non solo non agiamo correttamente con la prevenzione, ma
preferiamo, forse per esorcizzare del tutto la paura, definirla ancora
“rarissima evenienza “ cardiaca.
Che fine hanno fatto i defibrillatori?
Ma
mentre attendiamo dalla scienza una probabile soluzione del problema che almeno
ci palesi una volta per tutte i motivi che strappano alla vita un ragazzo nel
corso di una partitella di calcio fra amici, nella totale assenza di quelle
forme di prevenzione che pure potrebbero in qualche modo forse arginare un po’
il problema, ci accorgiamo di un’altra grave defaillance del nostro sistema sanitario
anche in ambito extraospedaliero che ci colloca in Europa agli ultimi posti in
ambito alla prevenzione mediante l’uso dei defibrillatori. A farsi paladino di
quella campagna informativa che pretenderebbe di dotare campetti di calcio,
luoghi di grande traffico di persone, come stazioni, aeroporti e laddove v’è
massima confluenza di gente, di defibrillatori, è il dottore Vincenzo Castelli,
un cardiochirurgo di
fama internazionale che ha vissuto sulla propria pelle il dramma rappresentato
dalla grave aritmia cardiaca che ha colpito ed ucciso il proprio figlio Giorgio
il 24 febbraio del 2006.
Così
racconta il dramma il cardiochirurgo: “ Ero
a Genova ad un convegno medico proprio sul cuore, l’altro mio figlio, Alessio,
che era anche lui lì, su quel campo di calcio della periferia Est di Roma, mi
ha telefonato immediatamente ed io ho vissuto impotente il dramma a 500 km di distanza. Il 118 è
giunto dopo 18 minuti, troppi, fossi stato lì presente, ma senza defibrillatore
avrei potuto fare ben poco e forse il Padreterno ha voluto risparmiarmi
l’ulteriore dolore di non essere riuscito a salvare mio figlio”.
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Da
questa tragedia è nata la Onlus
che porta il nome del figlio del dottore Castelli, intitolata infatti a Giorgio
Castelli, un’Associazione che si sta impegnando a tutto campo per dotare, tanto
per cominciare, gli impianti sportivi degli indispensabili defibrillatori
portatili in uso anche al personale non medico, sia pure adeguatamente
istruito, per far fronte alle primissime emergenze, come si evince dal sito
dell’Associazione www.gc6.org
Il
dottor Vincenzo Castelli punta anche il dito sull’importanza dei primi minuti
successivi all’evento quando dice che “
tutto si gioca nei primi cinque minuti di prolungato arresto cardiaco, dopo
dieci minuti la situazione è cupissima”. A margine un’altra
constatazione, la prevenzione delle malattie cardiovascolari da effettuarsi con
diagnosi a tappeto sulla popolazione. Potrebbe sembrare una spesa in più ed
invece è un investimento che permette al
S.S.N. di risparmiare soldi…. Ma soprattutto vite umane, come
visto, migliaia e migliaia di vite umane anche molto giovani.
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