martedì 28 marzo 2023

La notte porta consiglio: solo un modo di dire o c'è del vero nel famoso detto?

 


Quante volte di fronte ad un pensiero che ci assilla, ad un problema che aspetta da noi una soluzione, sfiniti, ci siam detti o abbiamo detto a chi si aspetta da noi una risposta, “la notte porta consiglio”? A questo punto la domanda è, questo detto, è solo un semplice modo di dire, oppure c’è del vero nel fatto che inframmezzare una notte di sonno ad una risposta ad un quesito o ad un problema importante, ci consente di fare luce sulle soluzioni da prendere?

Anche stavolta la risposta ci proviene dalla scienza, che asserisce che, indicare la notte come portatrice di consiglio, così come il detto recita, corrisponde a verità. Per capire come ciò accada, ci si rifà ad un primo esperimento condotto da ricercatori del CNR ed in particolare dell’Istituto di Fisiologia Clinica con a capo Angelo Gemignani che, dopo aver condotto uno studio sulle reazioni che un gruppo di volontari subiva durante i lavori, avrebbe osservato che bastava una notte di sonno per risolvere, nel 60% dei casi, un test mediamente complicato, ricorrendo ad una risoluzione precoce, rispetto agli altri volontari che privati del periodo di riposo non riuscivano ad eseguire il test o se lo eseguivano impiegavano un tempo di gran lunga maggiore.  

Successivamente, solo due anni dopo, uno studio condotto dal Biological Psichiatry avrebbe condotto un altro lavoro scientifico, stavolta sottoponendo dei volontari ad un test più complicato rispetto allo studio precedente. Ad un gruppo di volontari è stata chiesta la risoluzione di diversi test, in un lasso di tempo prestabilito. I volontari sono stati distribuiti in due gruppi, al primo, veniva richiesta la soluzione al test, concedendo ai partecipanti un periodo di sonno prima di rispondere alle domande che venivano loro poste. Al secondo gruppo, venivano poste le stesse domande ma si richiedevano le risposte senza inframmezzarle con un periodo di sonno. A distanza di quattro anni, i partecipanti dello studio venivano ricontattati e si notava come coloro che avevano dormito, all'epoca dell'esperimento, ricondavano il contenuto emotivo del testo, coloro che non avevano dormito all’epoca del test invece non ricordavano nulla, se non il fatto di aver partecipato all'esperimento e di ricordare qualche domanda qua e là senza avere memoria delle risposte che avevano dato. 

"Gli autori hanno ipotizzato che il Rem, la fase del sonno in cui si sogna, possa favorire a livello cerebrale un ambiente fisiologico ideale per il miglioramento delle connessioni neurali alla base della memoria emozionale", prosegue il ricercatore dell'Ifc-Cnr. "L'elettroencefalografia Eeg permette di studiare tali connessioni rilevando le oscillazioni del potenziale di membrana dei neuroni corticali, che caratterizzano l'attività elettrica del cervello. In un nostro studio, pubblicato su 'PLoS One' nel 2009, l'Eeg durante il sonno 'a onde lente' ha evidenziato una particolare rappresentazione grafica dell'attività neuronale, definita Sso (Sleep Slow Oscillation). Tale andamento è strettamente legato alla plasticità delle sinapsi, le strutture che consentono la comunicazione tra i neuroni, a sua volta connessa all'apprendimento implicito e alla memoria dichiarativa".

Andando ad approfondire gli studi si sarebbe osservato che la particolare attività neuronale generata dalle sinapsi, che sono le congiunzioni che mettono in collegamento i diversi neuroni a livello cerebrale, durante la veglia sono al massimo della frenesia e per ritrovare il giusto equilibrio hanno bisogno di un sonno ristoratore. Ma questo processo cerebrale, che vede le sinapsi passare dallo stato di massima eccitatibilità ad uno stato di equilibrio, grazie al sonno, è il meccanismo che consolida la memoria, quindi, in mancanza di sonno i ricordi anche recenti non verrebbero immagazzinati nella mente e si tende a dimenticarli e questo finisce per non agevolare nemmeno i fenomeni di concentrazione da svegli. 

"Capire come possa avvenire questo meccanismo permetterà di creare nuove strategie terapeutiche", conclude Gemignani. "Tali metodi potranno servire a impedire selettivamente il rafforzamento di quei ricordi che possono implicare patologie come la depressione e il disturbo post-traumatico da stress".

Fonte: Viola Rita -  Angelo Gemignani, Centro Extreme - Istituto di fisiologia clinica del Cnr

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